“Il crollo dell’economia può fare quello che il crollo delle Torri Gemelle non ha fatto”. Con questo assioma Pietro Grasso ha aperto la prima giornata del Festival internazionale del giornalismo, la cinque giorni sull’informazione che terrà banco a Perugia fino a domenica prossima. Il procuratore nazionale antimafia è convinto che la crisi mondiale riesca a convincere i Paesi internazionali a trovare strumenti efficaci per l’individuazione dei flussi di denaro sporco.
Da dove le viene questa fiducia?
“So che all’ordine del giorno del G20 la presidenza Obama porrà il problema dei paradisi fiscali, il punto critico dove spesso s’infrangono le nostre inchieste. Io non sono un economista ma è chiaro che l’ingente indebitamento dei Paesi ricchi comporta l’immediato recupero del maggior numero di risorse. Il denaro che sfugge ai governi attraverso le forme illecite di riciclaggio è enorme e forse basterebbe da solo a riequilibrare i numeri della crisi. La criminalità organizzata rischia di mandare in bancarotta l’intero sistema”.
Il segreto bancario non dovrebbe essere più un tabù, dunque?
“Mi limito a dire che Liechtenstein, Andorra, Principato di Monaco e tutti gli arcipelaghi fiscali presenti nel mondo dovrebbero essere posti sotto una forma di controllo internazionale che nasca da una volontà politica più che da un’azione di intelligence investigativa. D’altronde è difficile chiedere tasse ai cittadini quando immensi flussi di denaro sfuggono alla contabilità pubblica, magari ad opera di quelle banche che hanno contribuito al dissesto economico. Gli Stati Uniti possono davvero fare molto in questo momento di emergenza”.
In altre parole va equiparato il crimine organizzato ai colletti (o collettori) bianchi?
“La nostra difficoltà sta nell’intercettare il secondo binario del grande malaffare. Mentre sul fronte del crimine armato abbiamo strumenti per intervenire, e in questo caso ribadisco l’importanza delle intercettazioni, quando si sconfina nel terreno dei commercialisti compiacenti, dei finanzieri, dei faccendieri, troviamo spesso delle porte chiuse a norma di legge. Sappiamo che il marcio è lì, dietro quella porta, ma non possiamo farci niente. E’ frustrante e anche profondamente ingiusto”.
I temi della prima giornata. In verità ha ruotato tutta intorno alle svariate forme di criminalità, compresa quella ambientale, messa nero su bianco dai giornalisti Silvie Coyaud e Carlo Vulpio. E ancora: le enormi difficoltà di portare a termine inchieste in campo scientifico, tra corruzione dei centri di ricerca, delle facoltà universitarie, sordità editoriali, compensi miserrimi, o, come nel caso di Vulpio, sul silenzio fragoroso rispetto allo scandalo di Taranto, diventata la città più inquinata d’Europa per l’incredibile massa di diossine e idrocarburi scaricate nell’aria dagli stabilimenti industriali dentro la città. Una cortina di silenzio che comincia a mostrare crepe evidenti.
I videoreportage. Molte le esperienze significative in questo campo, specie per i giovani in cerca di un accesso al mestiere. Ci sono, per esempio, le video-inchieste di Ruben Oliva dedicate alla camorra (“O’ sistema”) e alla n’drangheta (“La Santa”, l’evoluzione affaristica del crimine calabrese), due racconti a tinte forti sugli intrecci malavitosi del Sud Italia che sconfinano ben oltre il quartiere di appartenenza, fino alle mitiche ville dei divi di Hollywood.
Per gli aspiranti giornalisti italiani, dunque, non manca la materia prima. E’ tutta una questione ambientale, si tratta anche in questo caso di riciclare l’immondizia, quella vera e quella figurata, che si chiami mafia, camorra, n’drangheta o lucropolitica. Un “tal quale” perfetto per essere rielaborato e messo in vendita sotto forma di reportage o di romanzo-inchiesta, come nel caso di “Gomorra”. O magari in un film vero e proprio, con l’attore che sussura al cellulare: “E’ la stampa, monnezza!”.