IL CONVEGNO PER I 20 ANNI DELLA SCUOLA DI GIORNALISMO DI PERUGIA È UNA CARRELLATA DI PRESTIGIOSE PENNE (AL SUGO) CHE TENGONO UN RETORICO SERMONE SU “TOCCA REINVENTARE IL MESTIERE” (MA NON BASTEREBBE CHE I GIORNALISTI DESSERO LE NOTIZIE?) – GLI EX ALUNNI IN TIRO: DA FLORIS A ANTONIO PREZIOSI – PARTERRE DE ROI (E DE BUFFET): GIULIO ANSELMI, GUBITOSI, ANDREA ZAPPIA (SKY), MARIO SECHI, ANTONIO MACALUSO…
«Educare, informare, intrattenere». No, non è la BBC, questa è la Rai tv, o meglio lo slogan per la Rai revolution di Luigi Gubitosi. Educare, nel senso di un ritorno ad un servizio pubblico pedagogico? Questo si vedrà, intanto il direttore generale della Rai, durante l’incontro per festeggiare i 20 anni della Scuola di Giornalismo di Perugia, parla del piano di digitalizzazione dei tg e ribadisce «la centralità» dell’istituto perugino, una specie di Primavera dei giornalisti Rai.
Tra mozioni degli affetti e memorie professionali, pissi pissi gossippari e cronachette di inconfessabili amorazzi, sembra di stare non nella sede del parlamento europeo a Roma ma in una terra di mezzo tra certe atmosfere di “Compagni di scuola” e un ritrovo di reduci dei bei tempi andati a fare il bilancio di ciò che è stato e di quello che non sarà, con i «venerati maestri» a darsi di gomito e «le belle promesse» ad interrogarsi su una crisi che ha tolto anche la speranza di diventare «i soliti stronzi» di berselliana memoria.
Ci si infligge una riflessione su un tema da brevi cenni dell’universo («Giornalista, un mestiere in un mercato senza merito?»), una storia infinita, in pratica, che ha diversi lead («La crisi è peggiorata», «cinque testate sono state chiuse in pochi mesi», «Sono mille i professionisti che arrivano sul mercato ogni anno, solo un quinto trova lavoro») e, apparentemente, una conclusione obbligata: fare il giornalista oggi significa accettare il rischio di un mestiere in cui molti sono i chiamati e pochi gli eletti. Fuffa montata, si dirà.
E, probabilmente, ascoltando la retorica sul merito, le vaghezze sulla formazione continua e il naufragio nell’oceano mare delle opinioni e delle omissioni, si potrebbe anche finire spiaggiati in attesa del buffet con il normale malumore degli esclusi.
Non è più il momento – parafrasando una canzone di Gaber, di lunghe discussioni e di tristi seminari, anche sul giornalismo? Oppure si avverte solo – come sostiene il direttore della Fieg, Giulio Anselmi, in cima ad un’analisi sul cambiamento dell’informazione ai tempi di Internet e del crollo del mercato pubblicitario – la necessità di reinventare il mestiere?
Se il dg Rai, Gubitosi chiede di valorizzare la competenza («premiando chi fa bene, si difende chi lavora») e di declinare il pluralismo non con il manuale Cencelli ma sulla base «dell’indipendenza» (qualsiasi cosa voglia dire oggi), l’ad di Sky Italia, Andrea Zappia, sottolinea come sia gli editori che i giornalisti debbano avere voglia di mettersi in gioco e molta passione.
Va’ dove ti porta il cuore, intanto, ché per essere assunti (o anche solo avere una retribuzione dignitosa) c’è tempo. Il vicedirettore del Corriere della Sera, Antonio Macaluso, fiuta l’aria e conferma, dati alla mano, quella che Luca Telese nel suo libro (Gioventù, amore e rabbia) chiama la prevalenza del «babbione» nelle redazioni: «Bisogna fare autocritica, i giornali sono troppo vecchi». L’ovvio dei popoli, certo, ma vivaddio che qualcuno lo ammette. E dunque?
«Bisogna trovare il modo di fare entrare i giovani». Vaste programme, già. E con le barriere all’accesso, ad esempio, come la mettiamo? Il direttore di Rai Parlamento, Gianni Scipione Rossi, butta lì la provocazione di consentire l’ingresso solo attraverso le scuole di giornalismo. Una ipotesi contestata dal direttore de Il Tempo Mario Sechi perché taglierebbe fuori i talenti irregolari e sostenuta («purché si abbassino i costi delle scuole…»), invece, dal presidente della Fnsi, Roberto Natale, che ricorda la vergogna tutta italiana dei tanti, troppi, collaboratori pagati tre euro a pezzo intanto che rilancia sulla legge per l’equo compenso.
Con Sechi che reclama a gran voce una nuova legge sull’editoria, il direttore dell’Ansa, Contu, insiste su una flessibilità «più ampia che in passato» e fa esercizio di ottimismo. «Questo è un mestiere che ha un grande futuro». Meno male. «Chi ha passione, alla fine, arriva». Anche se bisogna sempre vedere dove.
E come. In ogni caso, il direttore di Radio Uno, Antonio Preziosi, che è stato il primo presidente dell’associazione (oggi guidata da Anna Piras) che raggruppa gli ex alunni della Scuola di Perugia, consiglia di non perdere l’umanità ché «dietro la tecnologia ci sono sempre le persone».
E fuori dalle fortezze Bastiani dei giornali, resta un deserto di opportunità. Giovanni Floris che, con Antonio Preziosi, ha condiviso il primo corso biennale della scuola nel 1992, chiude questo ventennio breve: «oggi come 20 anni fa sta crollando un sistema». Anche se il mercato del lavoro italiano non aiuta: «qui c’è il guardiano che ti dà le chiavi – prosegue il conduttore di Ballarò in punta di metafora – negli Stati Uniti, invece, ci sono pescatori che vanno lontano dal promontorio del sistema per tirare su quelli più bravi». Nonostante tutto, la crisi offre la possibilità di una «rivoluzione culturale».
Floris smette i panni di Clark Kent e si presenta in versione descamisado invitando chi sta fuori a provarci, «ad infilarsi nei varchi». Roba forte, da vietcong del ricambio. Il sistema scricchiola, è «il momento d’oro degli outsider». Di quelli che partono da dietro, di quelli che, per adesso, si lanciano su pizzette e tartine da veri cronisti d’assalto…al buffet. Alè.
Francesco Persili
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