Di ritorno dalla stazione, dove era andato a prendere la moglie, Beppe Alfano era appena giunto con la sua macchina sotto il portone di casa. Insegnante, giornalista con una grande passione per la politica, collaboratore da Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) per La Sicilia, Alfano era cresciuto e si era formato in ambienti vicini all’Msi. Da tempo i suoi articoli davano fastidio alla mafia locale. Aveva una vecchia Renault 9, che aveva dovuto comprare per sostituire la sua macchina, distrutta in un rogo qualche tempo prima. Un avvertimento chiaro nel linguaggio della malavita.
Tre colpi nella notte
D’un tratto disse alla moglie di salire in casa, di chiudersi dentro e di non aprire per nessun motivo. Si era accorto che qualcuno l’aveva seguito. Si sentì di nuovo il rumore della vecchia Renault. Passarono venti, trenta minuti, tutto taceva. Finché giunse alle orecchie dei familiari il rumore di alcuni spari in lontananza. Erano le 22.45. Tre proiettili calibro 22 avevano colpito Alfano al volto e al petto. Secondo la ricostruzione delle forze dell’ordine, il giornalista si era allontanato per incontrare delle persone con cui presumibilmente aveva cominciato a discutere, per fermarsi nella centralissima via Marconi. A poche centinaia di metri da casa.
I mandanti mafiosi
A diciotto anni dall’omicidio, la giustizia ha individuato e condannato il mandante e l’esecutore dell’omicidio. Era stato il boss di Barcellona Giuseppe Gullotti, condannato a 30 anni di reclusione, ad armare la mano di Antonio Merlino, condannato in via definitiva a 21 anni. Il potere di Gullotti affondava le proprie radici in una sanguinosa guerra di mafia, che tra il ’90 e il ’92 fece 39 morti e 45 feriti gravi. Nel 1992 le inchieste portarono a 580 arresti. Incendi, intimidazioni, attentati ai cantieri e ai commissariati: la costruzione della Palermo-Messina faceva gola a molti, ma Alfano raccontava con coraggio questo contesto. Barcellona Pozzo di Gotto era un paese di 40mila abitanti, avvolto nel silenzio dei media, senza una procura, in un’opacità fatta di traffici di armi e droga, riciclaggio, frodi nei confronti dei fondi europei all’agricoltura e collusioni insospettabili. Alfano era arrivato a delineare un contesto che si stava concretizzando in un patto tra mafia, politica e massoneria. Una zona grigia che si estendeva nel messinese e che aveva il suo centro nevralgico a Barcellona, una sorta di porto franco per i poteri criminali, su cui si proiettava l’ombra della mafia catanese. Clan Santapaola in primis.
Uno scenario inedito, che per primo Alfano dipingeva nelle sue inchieste pubblicate su La Sicilia. Non aveva il tesserino da giornalista, né l’aveva mai chiesto. Ma proprio per il grande valore giornalistico dei suoi articoli l’Ordine aveva deciso poi di concederglielo, postumo, a 6 anni dalla morte. Alfano fu ucciso perché il suo lavoro dava fastidio, soprattutto alla mafia. Ma anche in questo caso, come in tanti altri che riguardano giornalisti uccisi, la verità uscita dai tribunali lascia spazio a dubbi e ombre.
Dubbi e ombre
Sonia Alfano, europarlamentare, in una intervista rilasciata al Corriere del Mezzogiorno ha detto:
«Non avrò pace finché non andranno in carcere anche i mandanti ‘politici’ dell’omicidio di mio padre, quelli che si nascondono tra le istituzioni e i professionisti, il livello dei cosiddetti ‘colletti bianchi’».
«Mio padre quando è stato ucciso stava indagando su una truffa agrumicola all’Ue, e sono certa che questo ha dato fastidio non solo ai boss. Inoltre come ha ammesso lo stesso procuratore dell’epoca Olindo Canali a Barcellona Pozzo di Gotto, il giorno in cui fu ucciso mio padre, c’era la presenza di Ros, Sisde e Sco: questo non credo sia casuale».
Andrea Gerli