“Da quanto tempo dura questo conflitto?” lo chiede retoricamente Gigi Riva, caporedattore esteri de L’Espresso, al grande pubblico che affolla la Sala del Dottorato a Perugia. Al convegno organizzato dall’Associazione Giornalisti Scuola di Perugia si discute la questione israelo-palestinese. Quasi il seme della discordia avesse invaso anche la dimensione del tempo, persino sull’inizio delle ostilità non c’è accordo. Come si è arrivati ad avere un popolo che vive nel terrore ed un altro privato della propria libertà e dignità? Forse 120 anni fa, con gli insediamenti dei primi coloni sionisti; o forse con l’abbandono del mandato britannico sulla Palestina e la guerra israelo-palestinese del 1948; o magari le ragioni si perdono in tempi ancora più remoti. Ma dopo tutto questo tempo, è ancora possibile continuare a sperare nella pace?

Il convegno parte da un fatto nuovo, avvenuto il 29 novembre 2012: l’ammissione della Palestina all’ONU come “stato osservatore non membro”. Dei 193 stati membri dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ben 138, tra cui l’Italia, hanno votato a favore della risoluzione 67/19. Un passo importante nel tentare la carta diplomatica per la risoluzione del conflitto, verso l’ormai largamente condivisa soluzione dei “due popoli due stati”; ma un passo che rischia di rimanere prettamente simbolico.

Come ricorda infatti Meron Rapoport, giornalista della rete televisiva israeliana Channel 2, “Non esiste ancora uno stato palestinese”, e aggiunge “Forse questa decisione rafforza in qualche modo la leadership di Abu Mazen, considerata come inconsistente, ma è troppo lontana da una reale soluzione”. Sul tavolo del convegno, moderato da Alessia Schiaffini del Tg3, tutti sembrano condividere questa posizione: “troppo poco, troppo tardi” sottolinea Zouhir Louassini, giornalista per Rainews24, “ormai si deve già parlare di tre stati non più due: Israele, Gaza e Cisgiordania”.

La testimonianza più dura sulla vita quotidiana del popolo palestinese arriva però da Ahmad Rafiq Awad, professore presso l’Università Al Quds, a Gerusalemme: “E’ incredibile quello che sta accadendo in Palestina: l’occupazione è come una malattia e dopo l’ammissione alle Nazioni Unite la situazione è peggiorata”. Awad ricorda le difficoltà di tutti i giorni per i palestinesi che abitano in Cisgiordania e la disparità di trattamento rispetto ai coloni ebrei: “Per riuscire a passare i check point devi dimostrare di essere vecchio, debole. Le operazioni che normalemente prenderebbero un’ora, ne prendono quattro o cinque. Io vengo dal paese più brutto del mondo: quello in cui non c’è libertà”.

La dura testimonianza si scontra con la speranza, espressa da Rapoport, di poter sorpassare le regole della contrapposizione, della demografia usata come arma, della separazione. Tra le parole del cronista si legge l’aspirazione ad uno stato unico di Israele, dove palestinesi ed ebrei possano vivere con gli stessi diritti, democraticamente “bisognerebbe spostare l’attenzione dalla lotta per uno stato a quella per i diritti civili”. Un’ambizione difficile anche solo ad essere pronunciata. Louassini ricorda infatti che lo stato di Israele si fonda su una contraddizione basilare: come si può essere democratici e “stato ebraico”, cioè definito sull’appartenenza etnico-religiosa? Le due cose, aggiunge Riva, non possono coesistere: se Israele vuole restare uno stato unitario ed ampio, includendo la stato palestinese, dovrà affrontare già dal 2015 il sorpasso demografico della popolazione araba su quella ebraica. A quel punto sarebbe impossibile cercar di mantenere anche solo una parvenza democratica.

Il paragone che serpeggia è insomma con l’apartheid in Sud Africa, in una situazione da leggersi però anche nel contesto delle primavere arabe. Con la rivoluzione in Egitto e la guerra civile in Siria infatti, Israele ha perduto se non due amici due vicini non problematici ed ora tralascia di concentrarsi sui problemi interni. “Ma Israele e Palestina hanno un loro Nelson Mandela?” chiedo a Rapoport alla fine della conferenza “No, manca una figura come Mandela, ma anche a Piazza Tahir non c’era un leader, eppure le cose sono cambiate”. La speranza insomma c’è, anche se come dice Awad: “Meron nel suo paese è una minoranza”.

Laura Aguzzi