«Il giornalista diventa pericoloso per un’organizzazione mafiosa quando tocca il nervo scoperto dei rapporti con il mondo della politica e dell’imprenditoria. Insomma, con quel blocco sociale definito “borghesia mafiosa”». Pietro Grasso, procuratore nazionale antimafia, spiega così le ragioni che portano le cosche alla decisione estrema di eliminare un cronista, durante l’incontro “Globalizzazione e criminalità organizzata”, promosso dall’Associazione Giornalisti Scuola di Perugia nell’ambito dela terza edizione del Festival del giornalismo di Perugia. A discuterne, nella sala dei Notari, ci sono anche Francesco La Licata de “La Stampa”, Petra Reski del tedesco “Die Zeit” ePaolo Butturini, segretario dell’Associazione Stampa Romana. A moderare Vittorio Di Trapani, segretario dell’Associazione Giornalisti Scuola di Perugia.
«Il giornalista non è pericoloso quando si limita a descrivere l’attività militare mafiosa, ma quando costringe un politico o un imprenditore a negare un appalto o una fornitura perché “ha la stampa addosso”. A quel punto, l’organizzazione decide di rimuovere l’impedimento». È possibile che questo problema si ponga anche oggi, in un mondo globalizzato in cui la circolazione delle notizie dovrebbe essere completa e in tempo reale? «Sì – risponde Grasso – perché i giornalisti che svolgono questo tipo di inchieste sono ancora troppo pochi. Se fossero di più, correrebbero meno rischi». Ne sa qualcosa Petra Reski, che ha visto censurare in Germania il suo libro “Mafia” per aver scritto, per la prima volta, i nomi di alcuni personaggi sospettati di associazione mafiosa. Il testo è uscito, nella seconda edizione, con lunghe parti oscurate da righe nere. «E quello che è peggio – racconta Reski – è che tutti difendevano le persone che avevo citato».
La censura, però, avviene anche in modo più sottile, come rileva Francesco La Licata: «Ultimamente si sono intensificate le richieste di risarcimento danni e le querele, come parte di una strategia per indurre i giornalisti a non fare il loro mestiere». Un mestiere che non consiste, come spesso si pensa, solamente nel pubblicare atti processuali trasmessi da magistrati e procure. «Quelle non sono inchieste, ma esclusive o scoop. Il giornalismo investigativo invece consiste nell’indagare con gli strumenti propri del cronista, senza l’aiuto della polizia e, se necessario, anche in contrasto con essa». Sempre più invece si incorre, per Butturini, nel pericolo dell’autocensura. «Per questo è necessario promuovere la crescita professionale dei giornalisti e il loro costante aggiornamento – spiega il segretario dell’Associazione Stampa Romana.
Nell’incontro si è parlato anche di intercettazioni. Per il procuratore Grasso «è necessario trovare un equilibrio tra il diritto alla privacy e la necessità di avere a disposizione strumenti efficaci per indagini complesse, come quelle sulla criminalità organizzata. Ma alcune delle limitazioni che si vorrebbero introdurre, come l’autorizzazione di un tribunale per l’utilizzo delle riprese in luoghi pubblici, rischiano di compromettere il buon esito di queste indagini». Basti pensare a luoghi come Corleone, dove «è impensabile organizzare un pedinamento e dove le riprese delle telecamere di sorveglianza sono state utili per arrivare alla cattura di Provenzano».