Raccontare storie, ad ogni costo, con coraggio e un pizzico di incoscienza. Questo il motto dei giovani giornalisti che hanno partecipato a “Vita da freelance”, panel organizzato dall’Associazione giornalisti scuola di Perugia in occasione del Festival internazionale del giornalismo 2015.
Quattro speaker che il mestiere di reporter lo conoscono bene. Pierluigi Camilli, padre di Simone, giornalista ucciso a Gaza la scorsa estate dallo scoppio di un ordigno; Valentina Parasecolo, reporter di Vice; Alessandro Di Maio, freelance che vive a Gerusalemme da 5 anni; e Gabriele Micalizzi, fotografo di Censuralab che ha curato numerosi reportage dalle zone di conflitto. Una professione che richiede sacrifici e costi economici ed umani elevati.
Alessandro Di Maio a 25 anni ha lasciato la Sicilia, dopo il mancato rinnovo del contratto di lavoro, e si è trasferito in Medio Oriente. «Non ho frequentato una scuola di giornalismo, ho preferito formarmi direttamente sul campo. All’inizio non è stato facile, ho contattato quasi tutti i giornali italiani, ma nessuno era disposto a pagare i miei reportage» racconta. Oggi, dopo quasi 5 anni, la situazione è migliorata, ma non è certo come aveva immaginato: «Pur collaborando con Libero e Il fatto quotidiano non riesco a mantenermi. Per questo ho iniziato a fare l’analista per un’agenzia che mi assicura lo stipendio fisso ma mi costringe ad dedicarmi alle storie che mi interessano durante le ferie».
«Per iniziare a fare il freelance serve un piccolo capitale. Avere da parte qualche risparmio ti consente di muoverti con meno pensieri durante i primi mesi» ci racconta Valentina Parasecolo, che dopo 7 stage (di cui 6 non retribuiti) e un’esperienza a Servizio Pubblico, ha iniziato una nuova esperienza con Vice. La giovane reporter ha declinato la chiamata della Rai, non per presunzione, ma per lavorare con maggiore libertà. «E’ vero, avrei potuto scegliere un lavoro con più garanzie, ma così posso occuparmi delle storie che ho più a cuore». Quest’anno Valentina ha seguito 3 reportage: corse clandestine di cavalli, campi nomadi e traffico illegale di materiale archeologico. In tutti i casi ha dovuto calarsi a fondo nelle realtà che voleva raccontare. «Ogni volta che tornavo in redazione subivo una forma di raffreddamento emotivo da parte del publisher, perché essere immersa in una realtà ti condiziona molto e il rischio da cadere nel giudizio è alto».
Ma essere un freelance significa anche stare al passo con i cambiamenti dell’informazione e della comunicazione. Secondo Gabriele Michelizzi, che da anni realizza reportage fotografici nelle zone di conflitto di tutto il mondo, non è il giornalismo ad essere in crisi, ma il vecchio linguaggio. «Oggi raccontare storie come si faceva un tempo non è più possibile. Sarebbe come pretendere di arricchirsi aprendo un negozio di cartoline». Gabriele ha iniziato a fare il freelance all’interno di Cesura, un collettivo fotografico indipendente nato in uno scantinato a un’ora da Piacenza. «All’inizio era un semplice laboratorio di stampa: poi ognuno di noi è partito per seguire da vicino una zona di conflitto». Gabriele racconta di aver perso molti amici che facevano il suo stesso lavoro, e alla domanda se ne sia valsa la pena risponde: «In pochi secondi qualcuno a cui tieni viene spazzato via. Ma nonostante questo penso ancora che raccontare queste storie valga la pena».
Diversa la posizione di Pierluigi Camilli, ex docente di giornalismo televisivo della scuola di Perugia, che questa estate ha perso il figlio Simone a Gaza causa dell’esplosione di un ordigno: «Per me è dura rispondere alla domanda se ne valga la pena. Anche perché ho conosciuto il mestiere di freelance solo attraverso mio figlio e i suoi amici. Di certo avrei preferito che Simone avesse scelto di lavorare dietro una scrivania e fosse ancora qui».
Dario Tomassini