Ci sono voluti più di undici anni per dare un volto ai mandanti e ai killer di Giancarlo Siani, il giovane cronista del Mattino di Napoli, ucciso dalla camorra a soli 26 anni, il 23 settembre 1985. Anni avvolti da depistaggi e silenzi che nascondevano intrecci sempre più ingarbugliati, che si sono disciolti grazie alla tenacia del giudice Armando D’Alterio, ora Procuratore capo della Repubblica presso il tribunale di Campobasso, che all’epoca si occupava dell’omicidio.
Fu proprio lui a riaprire le indagini nel 1993, dopo le rivelazioni di alcuni pentiti, tra cui Salvatore Migliorino, e che diedero un nuovo impulso alla ricerca degli assassini del giovane giornalista napoletano. «All’inizio dell’inchiesta si pensò subito al movente passionale – ricorda il giudice – anzi, il dottor Palmeri (giudice istruttore dell’epoca e titolare delle prime indagini, ndr) ne era fermamente convinto. D’altronde elementi per pensarlo ce ne erano. Innanzitutto la pistola utilizzata era una comune 7 e 65 e non la calibro 9 solitamente usata in ambienti camorristici, come un marchio di fabbrica. In più c’era da considerare che l’omicidio avvenne nel quartiere Vomero, non certo zona di camorristi. In realtà questi erano solo depistaggi creati ad hoc. Inoltre c’erano dei testimoni che avevano identificato in Alfonso Agnello, un piccolo tossicodipendente, poi completamente scagionato, il killer». Solo un anno dopo, infatti, la camorra entra nell’inchiesta. Il procuratore generale della Repubblica Aldo Vessia avoca a sé l’istruttoria sull’omicidio, sconfessando il lavoro fin qui svolto dalla procura della Repubblica.
Giorgio Rubolino è uno degli affiliati del clan Giuliano. Proviene dalla buona borghesia napoletana ed è sul taccuino degli inquirenti per essere uno degli “insospettabili” che fanno parte della camorra. Il suo nome è accostato all’omicidio Siani grazie alla testimonianza di Josephine (sua fidanzata) e Pandora Castelli. Le due raccontano al giudice Vessia che Rubolino si era presentato da loro, chiedendo che confermassero il suo alibi per la sera dell’omicidio di Siani. «La pista iniziale era che l’omicidio fosse stato deciso dai fratelli Giuliano per le cooperative di ex detenuti, su cui Giancarlo stava acquisendo informazioni», ricorda D’Alterio. Ma anche questa volta è un buco nell’acqua. «La vera svolta – dice il giudice – avvenne nel 1988, quando fu arrestato Claudio Sicilia. Faceva parte della Banda della Magliana, ma era soprannominato “Er Vesuviano”, proprio per le sue origini campane e per essere il ponte di collegamento tra la criminalità romana e quella napoletana. Fu lui a darmi l’input, durante gli interrogatori, e a farmi capire quale era la direzione da prendere per sbrogliare la matassa. Poi, il 4 settembre 1993, un pentito del clan di Valentino Gionta, Salvatore Migliorino, cominciò a fare i primi nomi e a indicare il movente dell’omicidio».
Quello che il pentito dichiarò agli inquirenti risultò sconvolgente, delineando un contesto completamente nuovo e impensabile. E’ la cosiddetta “Tangentopoli Oplontina”. «Si scoprì – ricorda D’Altero – un intreccio tra politica, tangenti e camorra. Il sindaco dell’epoca di Torre Annunziata, riconosciuto colpevole di reati contro la pubblica amministrazione insieme a due suoi predecessori, assicurava i pubblici appalti ai clan della camorra, in particolare al clan di Gionta e a quello dei fratelli Nuvoletta. Siani conosceva il sindaco, ci parlava spesso ed aveva probabilmente capito che anch’egli era colluso. Ma, oggi, noi sappiamo che in realtà Siani aveva scoperto forse un decimo di quello che poi si seppe dopo le indagini. Eppure fu sufficiente per ucciderlo». La decisione fu presa dai fratelli Nuvoletta, che andarono anche contro la volontà di Gionta, che era già in carcere. Il compito di uccidere il giovane cronista fu dato a Armando Del Core e Ciro Cappuccio, tutti condannati all’ergastolo.
Ma cosa rimane oggi di Giancarlo Siani? «Resta il simbolo e l’esempio – afferma D’Alterio – All’epoca non si sapeva ancora cosa fosse in realtà la camorra. Si pensava che fosse qualcosa di “straccione”, fortemente legata al territorio e comunque lontana dagli ambienti economici e politici. Questo perché mancava la percezione mediatica. Il salto di qualità si ha con la collaborazione. Oggi, grazie anche al sacrificio di Giancarlo, possiamo dire che le cose stanno cambiando».
Giuseppe Lisi