Nell’edizione odierna della Stampa uno scambio epistolare tra Enzo Iacopino, presidente dell’Ordine dei Giornalisti e il direttore Mario Calabresi sulla questione delle Scuole di giornalismo.
Caro Direttore, mi conceda un chiarimento a integrazione della sua risposta alla lettera di Chiara Andreola sulle scuole di giornalismo e sulle colpe degli «adulti», pubblicata giovedì scorso.
Io c’ero quando Mario Calabresi, giovane stagista, esordì in Parlamento dopo la sua esperienza in quella che noi «adulti» chiamiamo Walter Tobagi, senza voler fare torto a Carlo De Martino. Nel 1996 le scuole erano sei e da loro uscivano esattamente 150 giornalisti ogni biennio. E oggi? Lei scrive che i professionisti che «escono dalle scuole sono anche dieci volte di più», cioè circa 1.500. Sa quanti sono, nel biennio? Glielo dico: 392.
Nel 2007, quando sono stato eletto segretario dell’Ordine, mi sono trovato venti scuole in attività. Gli allievi (sempre nei due anni) erano diventati 609. Da allora a oggi – con una azione che senza enfasi definisco di moralizzazione – le scuole sono diventate 15 con un numero di allievi pari al 26 per cento di quello da lei ipotizzato, 392 appunto.
Penso che noi, noi «adulti», dobbiamo farci carico senza miopia della realtà. Tutti, anche quelli che contestano (e sono lieto non sia il suo caso) le scuole. Tra l’altro, maniaco delle statistiche come sono, posso dirle che provengono dalle scuole solo due su dieci di quanti ogni anno diventano professionisti. E gli altri otto? Molte volte con il riconoscimento di titoli accordato, nel rispetto della legge, da chi poi tenta di accreditare che la crisi deriva dalle scuole.
Enzo Iacopino, Presidente Ordine Nazionale dei Giornalisti
Ho fatto la scuola di giornalismo di Milano e sono convinto che le scuole siano il luogo migliore dove formare le nuove leve del mestiere, ma soprattutto che siano uno strumento di democrazia, perché garantiscono opportunità a tutti e parità di accesso senza raccomandazioni e in base al merito. Resto però dell’idea che la moltiplicazione delle scuole (passate da 6 a 20 in meno di dieci anni e in tempi in cui già si sentiva la crisi) sia stata un’operazione demenziale, molto spesso guidata da criteri molto discutibili.
Mi fa piacere che l’Ordine si sia attivato e abbia sfoltito le scuole e i corsi di laurea, soprattutto in quei luoghi dove poi nessun accesso al lavoro è possibile. Ma se quattro anni fa c’erano più di 600 studenti in uscita e in cerca di lavoro e negli ultimi due bienni se ne sono aggiunti altri 800, allora – visto che negli ultimi tre anni i giornali hanno quasi soltanto ridotto gli organici – la mia sensazione che ci siano in giro circa 1500 giovani giornalisti in cerca di un posto e stanchi della precarietà non è poi tanto sbagliata. Lo si vede dal numero dei curriculum inviati e da quanti fanno richiesta di uno stage: quando arrivai io all’Ansa a Montecitorio eravamo solo in due a fare il tirocinio estivo prima di tornare a scuola, negli ultimi anni nei grandi quotidiani ci sono stati momenti in cui gli stagisti sono arrivati a essere anche venti per testata. Penso sia necessario dire con chiarezza tutto ciò per evitare di creare illusioni e delusioni e per chiedere agli adulti di essere responsabili e onesti con i più giovani quando gli indicano percorsi di studio.
Mario Calabresi, direttore “La Stampa”
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