Parlare di conflitti. Quelli reali, quelli familiari, con il territorio o tra culture. Una sfida lanciata ai praticanti delle scuole di giornalismo dal concorso “Conflitti – Il coraggio di raccontare”, organizzato dall’Associazione Giornalisti Scuola di Perugia nell’ambito di “Conflitti – Festival internazionale del giornalismo e dell’audiovisivo” di Cassino. A presiedere la giuria lo storico inviato del TG1 Pino Scaccia.
Vincitore del concorso Ugo Leo, allievo del Master in giornalismo dell’Università di Torino, premiato per il video “Whatever will be – Sarajevo 20 anni dopo”. Il reportage sarà trasmesso da Rainews, media partner del Festival.
Al secondo posto, con “Carcere bianco”, Lidia Baratta e Alvise Losi, praticanti dell’IFG Walter Tobagi; terze Annalisa Laselva e Laura Longo del master in giornalismo dell’università di Bari, autrici di “Benvenuti al sud”.
Nella città che dal gennaio al maggio 1944 ha visto scontrarsi l’esercito tedesco e americano si è discusso e riflettuto in dibattiti e workshop su come raccontare le fratture e i contrasti. Per il giornalista è sempre una sfida riuscire ad insinuarsi nelle pieghe di una crisi, specialmente quando deve riuscire a capire e far capire le sfaccettature di territori devastati dalla criminalità organizzata, da rivoluzioni o dalla guerra. Nel convegno conclusivo “Embedded. Liberi o sicuri di raccontare” si è riflettuto proprio sul lavoro del giornalista nelle zone calde dei conflitti insieme a Lucia Goracci del TG3, a Pietro Suber del TG5 e al freelance Gian Micalessin. A moderare il dibattito Pino Scaccia, che negli anni ha esplorato i più diversi fronti, dall’Iraq alla Bolivia. Dalle esperienze sul campo emerge tutta la difficoltà di farsi un quadro preciso degli eventi quando in un Paese ogni struttura e organizzazione è scomparsa e muoversi per andare a caccia di una storia può voler dire rischiare di perdersi un’improvvisa svolta nel conflitto. “E’ importante dare tutti i punti di vista – spiega Suber – ma a volte è impossibile per problemi economici e di sicurezza”. A complicare il quadro il modo rapido e incontrollato con cui la rete e i social network trasmettono notizie che non sempre sono verificate o verificabili. Una guerra mediatica in cui la verità rischia di essere schiacciata dalla rappresentazione che le varie parti coinvolte ne vorrebbero dare.
Negli ultimi anni si è visto spesso il giornalista embedded, al seguito delle truppe. Una condizione non sempre facile per il professionista dell’informazione che vorrebbe a volte avere più libertà di movimento e a volte deve sforzarsi di mantenere un punto di vista esterno pur vivendo per giorni insieme ai soldati, condividendo disagi pratici e emozioni. “Non esiste un giornalismo di guerra a 360 gradi – ha spiegato Lucia Goracci – L’orizzonte è sempre limitato. E poi l’embedding più difficile da cui è più difficile svincolarsi è quello dei propri pregiudizi. In Libia eravamo arrivati con l’idea di una rivoluzione in atto e abbiamo trovato una guerra civile”.
Valeria Radiconcini