Era il 2007. La giuria del Premio Saint Vincent di Giornalismo, uno dei più prestigiosi, decideva che il premio speciale alla memoria doveva andare a lui, a Giovanni Spampinato. Che 35 anni di oblio erano troppi e che il suo nome e il suo coraggioso impegno andavano ricordati, assieme a tutti i giornalisti vittime di mafie e terrorismo.
In quell’occasione, il presidente della Repubblica scriveva: «Giovanni Spampinato ha onorato la professione giornalistica e i valori di verità, legalità e giustizia. E’ importante – continuava Napolitano – che si rifletta sul giornalismo di inchiesta attraverso la storia dei cronisti come lui che in ogni parte d’Italia hanno offerto significative testimonianze di coraggio professionale, di impegno civile e di dedizione ai principi costituzionali di democrazia e libertà. Queste storie, drammatiche ma esemplari, vanno conosciute come parte essenziale di una memoria condivisa da trasmettere alle nuove leve del giornalismo e alle nuove generazioni».
Giovanni Spampinato, 25 anni, studente di filosofia, cronista, corrispondente da Ragusa per L’Ora di Palermo e L’Unità, il 27 ottobre del 1972 rimaneva vittima della violenza e dei poteri forti che volevano ridurlo al silenzio. Il silenzio dell’asfittica tranquillità della provincia “babba”, di una Ragusa delle belle apparenze, dell’operosità e della gente perbene. La calma che celava una realtà a tinte fosche, fatta di collusioni con la mafia, gruppi eversivi di estrema destra, contrabbando di sigarette, traffici internazionali di droga e armi. E questa realtà era quella che Giovanni Raccontava nei suoi articoli. Da Palermo si complimentavano. Ma intorno a sé trovava un muro di gomma, fatto di gente che preferiva non vedere, far finta di niente.
Il 25 febbraio 1972 Angelo Tumino, un imprenditore locale, ex consigliere comunale del Msi, commerciante di antiquariato, fu trovato morto in una strada di campagna. Tra le tante piste seguite dagli inquirenti, ce n’era una che toccava i poteri forti della città, saliva per le strade della città iblea, fino ad entrare nel palazzo di Giustizia. Giovanni lo scrisse: «Fra i sospettati c’è un insospettabile: il figlio del Presidente del nostro Tribunale. Inoltre nelle indagini sono coinvolti alcuni protagonisti delle mie inchieste sulle trame nere». Per gli altri cronisti mancava la conferma ufficiale, non scrissero nulla. Il sospettato era Roberto Campria, 30 anni, figlio di un giudice. Giovanni ne pubblicò il nome, espose le contraddizioni del suo alibi, seguì, unico cronista, la vicenda nell’arco di mesi.
Finché il 27 ottobre, nella periferia di Ragusa, Campria scaricò due pistole contro di lui. Prese un sonnifero e si andò a costituire. Il tribunale fu clemente, riconoscendogli delle attenuanti, quasi che Giovanni realmente l’avesse “provocato” con i suoi articoli. Con i fatti che i suoi pezzi raccontavano. La condanna fu lievissima, nonostante si trattasse di un omicidio premeditato: 14 anni. E del delitto Tumino, poi, non si seppe più nulla.
A lungo Campria aveva chiesto a Giovanni di smettere. Prima lo aveva intimidito, poi aveva provato a tirarlo dalla sua, confidandogli di temere che chi gli aveva fornito l’alibi potesse ritrattare. Ma alla gente questo non interessava. Forse per paura, forse per complicità. «Chi te lo fa fare?», gli dicevano gli stessi che poi, dopo il suo omicidio, liquidarono il fatto come la conseguenza naturale delle “provocazioni” che il ragazzo, il cronista, aveva indirizzato al suo assassino nei suoi articoli. Gli stessi che per 35 lunghi anni continuarono a pensare a lui come a un povero ragazzo che in fin dei conti però se l’era cercata.
Invece Giovanni aveva fatto quello che ogni cronista ha il dovere di fare: raccontare la realtà. Ma aveva avuto il coraggio di farlo, anche a costo della vita, a 25 anni.
Andrea Gerli