Anna Politkovskaja, Antonio Russo, Magomed Yevloyev, Yuri Shchekochikhin, Igor Domnikov, Mikhail Beketov. Questi sono solo alcuni nomi dei tanti, troppi, giornalisti uccisi in Russia negli ultimi anni (duecentonovantaquattro dal 1993 ad oggi). Impossibile, invece, classificare le aggressioni, le intimidazioni, gli attentati falliti e tutte le pressioni che rendono la Russia uno dei paesi più pericolosi per i giornalisti. Un «paese non libero», come lo definisce Freedom House, che, proprio in base al livello di libertà, lo colloca al 175° posto su una classifica di 196 stati.
Per essere uccisi, aggrediti o soltanto minacciati basta fare quello che solitamente fanno – o dovrebbero fare – i giornalisti: porre domande, condurre inchieste, esprimere la propria opinione. Ad Oleg Kashin è successo esattamente questo: lo scorso 6 novembre due persone lo hanno aspettato sotto casa e lo hanno picchiato – senza però riuscire ad ucciderlo – con una barra di ferro, colpendolo più di cinquanta volta e fratturandogli mandibola e gambe e causandogli varie lesioni interne e un trauma cranico.
Gli aggressori si sono accaniti soprattutto sulle sue dita, colpevoli di avere scritto – per il quotidiano Kommersant – editoriali in cui Kashin denunciava la mancanza di libertà in Russia e articoli che parlavano delle manifestazioni contro la costruzione di un’autostrada tra Mosca e San Pietroburgo, autostrada che passa per la foresta secolare di Khimki e prevede l’abbattimento di migliaia di alberi.
«Percepivo il pericolo già da un paio di mesi – racconta Oleg Kashin – anche perché sul sito di Russia Unita, il partito di Vladimir Putin, era apparso un messaggio che diceva che l’avrei pagata, ma non credevo che si sarebbe mai passati ai fatti. Non direi che stavo facendo qualcosa per rischiare la vita. Scrivevo i miei editoriali e chiamavo il bianco “bianco” e il nero “nero”».
A fronte di tutto ciò ha quindi destato stupore l’affermazione di Nikita Barachev – corrispondente in Italia per gli eventi culturali di Literaturnaya Gazeta – fatta durante l’incontro “Mattanza Russa“, moderato da Marcello Greco: «Io non ho mai percepito la pressione della censura, nessuno mi ha mai detto di cambiare una sola frase nei miei articoli».
«Infatti – gli ha subito risposto Kashin – c’è soprattutto l’autocensura. I suggerimenti arrivano direttamente dal Cremlino, che convoca i capo-redattori per consigliare loro di non scrivere su certi argomenti».
«È vero – ha aggiunto la giornalista indipendente Oksana Chelysheva – in Russia non esistono strutture di censura, ma ci sono altri metodi. Come l’omicidio e l’aggressione. La polizia, poi, con la scusa che certe inchieste sono estremiste, può entrare nelle redazioni e sequestrare tutto, bloccando completamente l’attività delle testate».
Il problema, poi, non è rappresentato solo dagli omicidi e dalle violenze, ma anche dalla forza dell’intimidazione, in grado di agire su quel gruppo silenzioso di giornalisti che, per paura di entrare nel mirino del potere, si autocensura e fa il proprio mestiere in punta di piedi. «Dopo la morte di Anna Politkovskaja – racconta Oleg Kashin – è morto il genere delle inchieste sul Caucaso. Forse, dopo la mia aggressione, non si faranno più editoriali come i miei. Quindi, tornato al lavoro, dopo il coma, sono diventato più agguerrito di prima. Proprio per dimostrare ai colleghi che non bisogna avere paura».
Sara Ligutti